Testo critico di Giovanna Lacedra relativo al progetto fotografico “Invenire Se”
“La vera vocazione di ognuno è una sola,
quella di arrivare a se stesso”
(Hermann Hesse)
La vera vocazione di ognuno è quella di arrivare a se stesso. Cercarsi per conoscersi, per
incontrare i propri limiti ma anche le proprie vastità.
Già il pensiero socratico assurgeva a ciò. “Una vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta”. E dopo Socrate, ma forse più precisamente insieme a lui – dal momento che ne fu il più
fedele discepolo e divulgatore –, Platone parlava di “Paradeigma” riferendosi all’immagine
fondamentale che abbraccia l’intero destino di una persona. Per entrambi i filosofi, quindi, l’uomo
aveva il dovere di tendere alla conoscenza di sé, per scoprire chi e cosa intimamente fosse e per
incontrare la propria natura. Quell’immagine innata, il paradeigma cui si riferisce Platone nel Mito
di Er, altro non era che una sorta di scintilla. Una fiamma baluginante di coscienza, qualcosa che
l’uomo avrebbe dovuto avere il coraggio di scorgere dentro se stesso.
“Gnōthi seautón” ovvero “conosci te stesso” è il più celebre dei moniti che ci giunge dalla
filosofia greca. Troneggiava sul frontone del Tempio panellenico di Delfi dedicato ad Apollo, e nei
secoli ha influenzato la ricerca di pensiero di moltissimi filosofi. Con questa locuzione, l’oracolo
delfico invitava l’uomo alla ricerca del sé per conoscersi appieno, nelle proprie fragilità e nelle
proprie estensioni. Conoscersi per ritrovare il cuore della propria verità. Anche Aristotele riteneva
che “l’anima è, in certo qual modo, tutto” e che nulla si può veramente conoscere se prima non ci si
è inoltrati in lei.
invenire-se / Cercare se stessi – di Antonio Delluzio from Antonio Delluzio on Vimeo.
Autocoscienza, quindi. Un termine usato in secoli di filosofia e adottato poi anche dalla
psicanalisi. Jung sosteneva che “in ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo”, e in effetti
questa affermazione non si distanzia troppo da quella che quindici secoli prima fece Sant’Agostino:
“Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”, “Non andare fuori, rientra in
te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità”.
È nel profondo di noi che possiamo ritrovarci. Indagando, frugando. Aprendoci strade e
percorsi ben lontani dai consueti automatismi mentali. Perché per scorgere la propria luce, per
guardarsi dentro, si deve avere il coraggio della decostruzione e della nudità. Si deve essere pronti a
decostruire, una per una, tutte le sovrastrutture psichiche e a spogliarsi dei ruoli che il vivere in un
determinato contesto sociale e famigliare, inevitabilmente impone.
Conoscere se stessi, da sempre, implica una introspezione catartica e un graduale distacco da
ciò che ha edificato il nostro Io. E per fare ciò è necessaria una condizione di pura solitudine, che
non vuol dire isolamento, bensì allontanamento.
Allontanamento dalla confort zone, dalla consuetudine, dalle impalcature. Perché incontrare
se stessi significa ritrovarsi nudi come vermi davanti ai propri occhi. E non spostare lo sguardo
altrove per nessuna ragione. Significa non adempiere, non mentire, non nascondere. Significa
indagare, senza cercare alibi. Significa smettere di mimetizzarsi, abbandonare tutto ciò che ci è
noto, e a questo preferire l’ignoto e una spiazzante condizione di smarrimento.
Cercare se stessi significa, in un certo senso, “riavvolgersi”, ripiegarsi all’interno di sé, per
scrutare in fondo al pozzo della propria anima. Privi di difese. Accettando questa disorientante
perdita di certezze, quale conditio sine qua non sarebbe possibile ricondursi a sé.
Le creature fotografate da Antonio Delluzio vivono questo stesso smarrimento. La perdita
graduale dell’Io nella faticosa ricerca del Sé.
Avulse da qualunque contesto noto o riconoscibile come reale, le creature da lui ritratte per
la serie fotografica “Invenire se” sembrano inverare quanto spiegato sin qui.
Sono anime, più che corpi. Sono percorsi. E ricerche.
Anime nude. Corpi che si contorcono, perdendo identità. Che vagano in questo non luogo
liquido ed evanescente. I loro connotati fisici sfumano e svaporano parzialmente in una dimensione
sospesa tra l’onirico e il subacqueo. Eppure la forza, quasi esasperante, delicata e inquieta di questi
corpi al limite tra ascesa ed apnea, costantemente tesi ad afferrare qualcosa che non c’è, la si
avverte tutta nei movimenti lenti e determinati, sapientemente catturati dallo sguardo sensibile del
fotografo.
Sono corpi che talvolta si contorcono su stessi, o si avvolgono in un abbraccio, come nel
disperato tentativo di strapparsi fuori da sé quella scintilla platonica, mai del tutto afferrabile.
“Invenire Se” in latino vuol dire letteralmente “cercare se stessi”. E queste creature
sembrano aver scelto una condizione di assoluta solitudine, per concedersi all’immersione.
Ogni soggetto è inevitabilmente solo con se stesso. Appare avvolto da una sorta di placenta,
una patina che ne sfuma contorni e dettagli. Quasi come se l’identità non fosse indispensabile.
Quasi come a voler neutralizzare le tracce di un Io troppo maiuscolo.
Immerso in una sorta di limbo desertico, dove nulla si scorge se non la presenza di chi vi si
smarrisce, ciascun soggetto pare muoversi lentamente. Le pose assunte sono differenti: alcuni corpi
danzano, altri si contorcono, altri ancora appaiono immobili, come cristallizzati nell’attesa.
Ogni corpo pare quasi perdere corpo. Consistenza, peso e volume. Tutto è molto labile,
metaforicamente vulnerabile. Come se queste anatomie non fossero già più tangibili. Come se i
corpi divenissero “sottili”: pura essenza di se stessi.
Ad osservarle una per una, queste fotografie ci svelano una sorta di irrequietezza. Quella
della perdita di cui necessita ogni autentica ricerca.
Sono identità sfuocate, quasi viste attraverso una sorta di miopia esistenziale. I particolari
sfumano come in una leonardesca prospettiva dei perdimenti. E a tratti ricordano alcune figure
dipinte da Richter.
Il soffice nitore di una nebbia pervasa di luce le avvolge e culla .
Ma il luogo in cui ciascuna creatura danza o si dimena è in realtà lo spazio della propria
anima. Quel mare, dentro di noi, dove la verità ci chiama. E con un sibilo confuso, qualche volta
assordante, ci chiede il sacrificio dell’ascolto.
Giovanna Lacedra
Enigma: io sono la mancanza – la mancanza che sono
– sono ciò da cui manco – sono tutta mancanza – e non
c’è nostalgia – neppure lontananza – essendo ciò che
manca – adesso e sempre – io
(Mariangela Gualtieri)
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